LE BACCANTI
di Euripide
QUINTO EPISODIO
SECONDO MESSAGGERO
CORO
SECONDO MESSAGGERO
CORO
SECONDO MESSAGGERO
CORO
CORO
SECONDO MESSAGGERO
CORO
SECONDO MESSAGGERO
QUINTO STASIMO
CORO
ESODO
CORO
AGAVE
AGAVE
AGAVE
CORO
AGAVE
AGAVE
AGAVE
AGAVE
AGAVE
CORO
AGAVE
CORO
antistrofe]
AGAVE
AGAVE
CORO
AGAVE
CORO
AGAVE
CORO
AGAVE
AGAVE
AGAVE
AGAVE
CORO
AGAVE
CADMO
AGAVE
CADMO
AGAVE
CADMO
AGAVE
CADMO
AGAVE
CADMO
AGAVE
CADMO
AGAVE
CADMO
AGAVE
CADMO
AGAVE
CADMO
AGAVE
CADMO
AGAVE
CADMO
AGAVE
CADMO
AGAVE
CADMO
AGAVE
CADMO
AGAVE
CADMO
AGAVE
CADMO
AGAVE
CADMO
AGAVE
CADMO
AGAVE
CADMO
CADMO
AGAVE
CADMO
AGAVE
CADMO
CORO
AGAVE
DIONISO
CADMO
DIONISO
CADMO
DIONISO
CADMO
DIONISO
AGAVE
DIONISO
CADMO
AGAVE
CADMO
AGAVE
CADMO
AGAVE
CADMO
AGAVE
CADMO
AGAVE
AGAVE
CADMO
AGAVE
CORO
QUINTO EPISODIO
SECONDO MESSAGGERO
O casa, felice un
tempo nella la Grecia
intera,
casa di Cadmo, il
vecchio di Sidone, che seminò nella terra
i denti del drago, del
serpente razza della terra,
come ti piango, e sono
solo un servo, eppure…
[per i servi onesti
sono disgrazia i mali dei padroni]
CORO
Che c’è? Dalle
Baccanti che novità ci porti?
SECONDO MESSAGGERO
Pènteo è morto, il
figlio di Echìone.
CORO
Signore Bromio, dio ti
riveli, grande!
SECONDO MESSAGGERO
Che dici? Che parole
son queste? Tu, donna,
sei felice per le
disgrazie dei miei padroni?
CORO
Sono straniera io, e grido la mia gioia coi miei canti da barbara,
euòi.
Ora non tremo più per
la paura, non sarò più in catene.
SECONDO MESSAGGERO
E credi che a Tebe non
esistano più uomini…? […]
CORO
Dionìso, Dionìso, non
Tebe
ha su di me potere!
SECONDO MESSAGGERO
Posso capirvi. Ma non
è bello, donne,
essere felici dei mali
degli altri.
CORO
Dimmi tu, parla: di
che morte è morto
quell’uomo ingiusto
che tramava ingiustizie?
SECONDO MESSAGGERO
Ci si lasciò alle
spalle le ultime case di questa terra di Tebe,
risalimmo le correnti
dell’Asòpo
e poi si prese su per
ripidi sentieri che vanno al Citerone,
Pènteo, io – che
seguivo il mio padrone –
e lo straniero, la
nostra guida in quella spedizione.
Prima una sosta in un
prato erboso,
attenti a soffocare il
rumore dei passi ed il respiro,
per vedere senza
essere visti.
C’era una conca tra
pareti di roccia, scavate da sorgenti,
ombreggiata dai pini:
le Menadi erano là,
tutte prese in piacevoli
fatiche:
alcune coronavano
d’edera il loro tirso
che aveva perduto la
sua chioma;
altre, come puledre
liberate dai gioghi variopinti,
facevano risonare a
voci alterne un canto a Bacco.
Pènteo, quell’infelice, non riusciva a vedere la schiera delle
donne.
E allora disse: “Straniero, io da qui,
non arrivo a vederle,
quelle Menadi false.
Ma lassù dalle rocce,
se salgo proprio in cima ad un abete,
le vedrei bene, le
loro sconcezze”.
A questo punto, ecco,
vedo il miracolo dello Straniero:
afferra la cima, alta
fino al cielo, di un abete
e lo piega giù, lo
piega, lo piega giù fino alla terra nera.
E l’abete si curva,
come un arco o un legno
che il tornio modella
a forma di ruota.
Proprio così lo Straniero, con le sue mani, teneva quell’albero di
montagna e lo piegava giù fino a terra: e questa impresa niente aveva di umano.
Poi fa sedere Pènteo
sui rami dell’abete,
si fa scorrere il
tronco diritto tra le mani, piano piano,
attento che lui non
sia disarcionato:
dritto ora l’albero
svettava su, nell’alto del cielo,
e si portava, seduto
sulla cima, il mio padrone.
E fu visto, piuttosto
che vederle, lui, le Menadi.
Non era ancora bene in
vista, appostato lassù in alto,
che lo Straniero non
si vide più.
Ma dal cielo una voce
- Dionìso credo -
levò il grido:
“Ragazze,
vi porto chi ha riso
di voi,
di me e dei miei riti:
punite l’uomo!”.
Mentre così parlava,
tra cielo
e terra si stagliava
una luce di fuoco divino.
Silenzio nell’aria,
silenzio tra le fronde del bosco
e nella valle, silenzio
le voci delle fiere.
Ma quelle non udirono
chiara la voce del dio
e si alzarono ritte e
volsero attorno gli occhi.
Lui di nuovo gridò:
quando udirono
chiaro il comando di
Bacco, le figlie di Cadmo
si lanciarono più
veloci di colombe,
mossero i piedi in
corsa vorticosa
la madre Agàve e con
lei le sorelle, nate dal suo stesso seme,
e tutte le Baccanti. E
a balzi per la valle solcata dai torrenti
e tra i burroni
corsero, invasate dallo spirito del dio.
Quando poi vedono il
mio padrone nascosto sull’abete,
s’arrampicano su una roccia che stava di fronte a lui come una
torre, scagliano pietre a tutta forza e rami d’abete come fossero lance.
Altre facevano
balenare nell’aria i loro tirsi
contro Pènteo, ormai
solo un misero bersaglio, ma senza colpirlo.
Quell’infelice, in
preda alla paura e senza scampo,
era troppo in alto,
fuori portata dalla loro furia.
Alla fine, schiantano
come fulmini i rami dalle querce e
si mettono a scalzare
le radici; ma quelle leve non erano di ferro
e i loro sforzi furono
tutti vani.
Allora Agàve disse:
“Avanti, Menadi, tutte qua in cerchio,
afferrate il tronco,
prendiamo la bestia salita lassù,
perché non sveli le
danze segrete del dio!”.
Mille mani abbrancano
l’abete,
lo strappano dalla
terra
e da lassù, dall’alto
a precipizio,
s’abbatte a terra,
Pènteo, tra grida di terrore:
capisce di essere
vicino alla rovina.
Fu sua madre, per prima, ad iniziare, sacerdotessa di un rito di
sangue,e gli si avventa contro. Lui si strappa via la mitra dai capelli, perché
Agàve, anche lei infelice, lo riconosca e non lo uccida, carezza il viso di sua
madre e dice:
“Io, madre, sono
figlio tuo,
Pènteo, partorito da
te nella casa di Echìone.
Pietà, madre, abbi
pietà di me, per le mie colpe
non ammazzarlo, questo
figlio tuo!”.
Ma quella, con la bava
alla bocca, torceva
le pupille stravolte,
era fuori di sé, non intendeva:
posseduta da Bacco,
lei non l’ascoltò.
Gli afferra il braccio
sinistro con le mani,
punta i piedi sui
fianchi di quel disgraziato
e gli sbrana la
spalla, ma non con la sua forza:
il dio dava vigore
alle sue braccia.
Dall’altra parte
compie il suo scempio Ino
e squarta le carni,
poi s’accanisce Autònoe e poi le Baccanti
in branco tutte
insieme. Era tutto un gridare confuso:
lui urlava di dolore
finché ebbe ancora un po’ di fiato,
loro urlavano grida di
vittoria. Una portava un braccio,
l’altra un piede
ancora col calzare, le costole messe a nudo
erano sbranate e con
le mani grondanti di sangue le Baccanti
si lanciavano, come
una palla, i brandelli di carne di Pènteo.
Ora il suo corpo
giace, fatto a pezzi, qua e là: un pezzo
sotto rocce scoscese,
un pezzo tra le macchie del bosco,
e non sarà facile
trovarli. La misera testa,
se l’è presa sua
madre:
l’ha piantata sulla
cima del tirso e la porta in trofeo
giù per il Citerone,
come fosse la testa di un leone montano.
Ora ha lasciato le
sorelle tra i cori delle Menadi
e lei, fiera di questa
preda disgraziata,
avanza verso le nostre
mura e invoca Bacco,
suo alleato, suo
compagno di caccia, il grande vincitore:
e a lui porta il
trofeo di una vittoria fatta di lacrime.
Ma io voglio stare
lontano da questo orrore, e me ne andrò
prima che Agàve arrivi
qui a palazzo.
Essere saggi e
venerare gli dèi
è la cosa più bella: e
credo anche che sia la più sensata
e, per noi mortali, un
bene prezioso, se lo mettiamo in pratica.
QUINTO STASIMO
CORO
Cori per Bacco,
grida di rovina
per Pènteo, stirpe del
serpente:
si travestì con vesti
di donna,
prese un bastone
d’edera incoronato,
fatale promessa di
morte,
un toro lo guidò alla
rovina.
Baccanti figlie di
Cadmo,
il vostro canto di
vittoria bella
ha fine nelle lacrime
e nel pianto:
oh, bella impresa,
abbracciare la testa di un figlio
con mano che gronda
del suo sangue!
ESODO
CORO
Ecco, la vedo! Arriva
qui alla reggia
Agàve, la madre di
Pènteo. Ha gli occhi stravolti!
Accoglietelo in festa,
questo corteo del dio della gioia, euòi!
strofe]
AGAVE
Baccanti d’Asia!
CORO
Perché questo grido?
AGAVE
Portiamo su dai monti
a questa casa un
tralcio d’edera, tenero,
appena reciso: caccia
fortunata.
CORO
Vedo e ti accolgo in
mezzo al mio corteo.
AGAVE
L’ho preso senza rete,
questo giovane
cucciolo di leone selvaggio.
Eccolo, guarda!
CORO
Da quale terra
solitaria vieni?
AGAVE
Il Citerone…
CORO
Il Citerone?
AGAVE
L’uccise il Citerone.
CORO
Ma chi lo colpì?
AGAVE
Il merito è tutto mio!
CORO
Agàve beata!
AGAVE
E beata mi chiamano
nei tiasi.
CORO
Chi altra lo colpì?
AGAVE
Di Cadmo le…
CORO
Di Cadmo?
AGAVE
Sì, le figlie di
Cadmo,
ma dopo di me, dopo di
me
loro hanno messo le
mani su questa fiera:
fortunata davvero
questa caccia!
CORO
[…]
antistrofe]
AGAVE
Su, ora, al mio
banchetto!
CORO
Che dici? A banchetto?
Oh, infelice!
AGAVE
È un vitellino di
latte.
Solo un’ombra di
morbido pelo
gli fiorisce appena
sulla guancia.
CORO
Dalla criniera sembra
una fiera selvaggia.
AGAVE
È stato Bacco,
l’astuto cacciatore,
a spingere con
l’astuzia
le Menadi contro
questa fiera.
CORO
Il nostro signore è cacciatore.
AGAVE
E tu mi lodi?
CORO
Ti lodo.
AGAVE
Presto i Tebani…
CORO
… di sicuro Pènteo,
figlio tuo…
AGAVE
… oh, sì, lui dirà
brava a sua madre
che ha preso questa
preda, creatura di leone.
CORO
Preda gloriosa!
AGAVE
E presa con gloria!
CORO
E sei felice?
AGAVE
Sono felice: con
questa caccia
grandi cose ho
compiuto,
grandi e gloriose.
CORO
E allora mostra,
infelice, la tua preda gloriosa
ai tuoi concittadini,
questa preda che tu porti in trionfo.
AGAVE
Voi che abitate la
rocca di Tebe dalle belle torri,
correte a vedere
questa preda,
che abbiamo preso noi,
figlie di Cadmo,
e non con giavellotti
di Tessaglia dalle cinghie di cuoio,
non con le reti, ma
solo con la forza di queste mani candide:
e allora, perché
vantarsi e procurarsi invano
strumenti di guerra da
chi fabbrica armi?
Noi solo con queste mani abbiamo catturato l’animale e le sue
membra le abbiamo fatte a pezzi con queste stesse mani.
Dov’è il mio vecchio
padre? Che venga qui, vicino.
E Pènteo, il figlio
mio, dov’è?
Prenda una scala
robusta, e l’appoggi alle mura:
inchioderemo ai fregi
del palazzo
questa testa di leone
che io porto come trofeo di caccia.
CADMO
Seguitemi, con il
misero peso dei resti
di Pènteo, seguitemi,
servi, qui davanti al palazzo.
Ecco, dopo molte
ricerche riporto qui a fatica
il suo corpo: io l’ho
trovato fatto a brani, disperso
fra le balze del
Citerone, e nessun pezzo io l’ho raccolto
nello stesso posto. Era introvabile, disperso com’era nella
macchia.
Ho sentito qualcuno
raccontare le belle imprese delle figlie mie,
quando ormai avevo
lasciato le Baccanti
ed ero tornato qui in
città con il vecchio Tiresia:
allora me ne vado di
nuovo su al monte
e ora riporto qui il
ragazzo massacrato dalle Menadi.
E così ho visto quella
che un giorno partorì Atteone ad
Aristeo,
Autònoe e insieme a
lei Ino, povere donne,
che ancora
brancolavano in delirio nel querceto.
E lei, Agàve, un uomo
mi disse che lei veniva qui
a passo frenetico di
danza, e mi ha detto il vero:
l’ho qui davanti agli
occhi, ed è una vista orrenda.
AGAVE
Padre, puoi davvero
vantarti di avere seminato
le figlie migliori tra
i mortali:
e parlo di tutte le
tue figlie, ma di me in particolare.
Io ho abbandonato la
spola e il telaio
e sono andata a imprese più grandi, a cacciare le fiere a mani
nude.
Ecco tra le mie
braccia il mio trofeo, conquistato da me,
perché sia appeso
davanti alla tua casa:
prendilo, padre mio,
tra le tue mani,
e, fiero della mia
caccia,
invita a banchetto i
tuoi amici: beato tu sei,
tu sei beato, per
l’impresa che noi abbiamo compiuto!
CADMO
O pena infinita! Io
non posso guardare
lo scempio compiuto da
queste vostre mani disgraziate.
Bella la vittima, che
hai sacrificato per gli dèi,
e ora inviti a
banchetto questa città di Tebe e me!
Ah, che disgrazia,
prima di tutto tua, poi anche mia!
Il dio e Bromio
Signore ci ha distrutto, con giustizia, sì,
ma oltre ogni limite.
E lui è nato in questa nostra famiglia.
AGAVE
Ah, che uggia questi
vecchi, sempre così scorbutici
e noiosi! Oh, se mio figlio
fosse bravo a caccia e
somigliasse a sua madre,
quando coi giovani
Tebani
va a caccia delle
fiere! Ma quello è bravo solo
a fare la guerra al
dio! Tu, padre, devi farlo ragionare.
Chi me lo va a
chiamare, chi me lo porta qui
a vedere quanto sono
felice?
CADMO
Ah, quando ritornerete
in senno e capirete quello che avete fatto,
patirete un dolore
tremendo. Ma, se per sempre
sarete in questo
stato, certo non sarete felici,
ma almeno non saprete
di soffrire.
AGAVE
E cosa non va bene o
ti addolora?
CADMO
Ascoltami, fissa il
tuo sguardo verso questo cielo.
AGAVE
Ecco, ma perché mi
dici di guardarlo?
CADMO
E ti pare lo stesso,
questo cielo, o avverti mutamenti?
AGAVE
È più chiaro e più
limpido di prima.
CADMO
E questo senso di smarrimento
nella tua anima c’è sempre?
AGAVE
Non le capisco, queste
tue parole. Però sento
che torno in me e i miei pensieri sono diversi dai pensieri di
prima.
CADMO
Sei in grado di
ascoltare e rispondere con lucidità?
AGAVE
Sì, padre. Ho come
dimenticato quello che ho detto prima.
CADMO
In quale casa sei
entrata con il tuo matrimonio?
AGAVE
Tu mi hai dato a
Echìone, che, dicono, fu seminato nella terra.
CADMO
E quale figlio è nato
al tuo sposo in questa casa?
AGAVE
Pènteo è nato dalla
mia unione con suo padre.
CADMO
E di chi è la testa
che tieni tra le mani?
AGAVE
Di un leone: almeno
così dicevano le donne, mie compagne di caccia.
CADMO
Guardala ora, con
attenzione: è fatica da poco guardarla.
AGAVE
Ah! Ma che vedo? Che
mi porto in mano?
CADMO
Su, osserva bene, e
conoscilo meglio.
AGAVE
Vedo un dolore
immenso, io, disgraziata!
CADMO
E ti pare davvero che
assomigli a un leone?
AGAVE
No! È la testa di
Pènteo! E io la tengo in mano, disgraziata!
CADMO
E io l’ho già
compianto, prima che tu lo riconoscessi.
AGAVE
E chi l’ha ucciso?
Com’è arrivato qui tra le mie mani?
CADMO
Triste verità, perché
non giungi in tempo?!
AGAVE
Parla! Mi scoppia il
cuore per quello che dirai!
CADMO
Tu l’ha ammazzato, e
le tue sorelle.
AGAVE
E dove è morto? Qui,
in casa ? O dove?
CADMO
Proprio là, dove un
tempo le cagne sbranarono Atteone.
AGAVE
E perché questo povero
infelice andò sul Citerone?
CADMO
Per ridere del dio e
delle tue danze per Bacco.
AGAVE
E noi in quel luogo
come s’arrivò?
CADMO
In delirio eravate, e
tutta la città era piena di quella pazzia.
AGAVE
Dionìso ci ha perduto:
solo ora capisco.
CADMO
Sì, offeso dalle
vostre offese: per voi lui non era un dio.
AGAVE
E il corpo caro di
quel figlio mio, padre, dov’è?
CADMO
È qui: l’ho ritrovato
io, con grande fatica.
AGAVE
E tutte le sue membra
sono ben ricomposte?
[…]
E Pènteo che parte
ebbe nella mia pazzia?
CADMO
Lui era come voi: non
venerava il dio.
Per questo Dionìso vi
ha uniti tutti nella stessa disgrazia,
voi e questo ragazzo:
il dio ha distrutto la mia famiglia
e me. E io, ora, senza
figli maschi,
sono qui a guardare
questo frutto del ventre tuo,
o infelice, trucidato
nel modo più vergognoso e orrendo.
A testa alta guardava
a te la nostra famiglia, a te, o figlio,
che reggevi la mia casa,
il figlio di mia figlia,
a te che eri il
terrore di questa città. E questo vecchio,
nessuno osava
offenderlo alla tua presenza,
perché l’avrebbe
pagata a caro prezzo.
Ma ora, senza più
dignità, sarò esiliato da questa casa, io,
il grande Cadmo, che
seminò la razza dei Tebani
per poi mietere la
messe più bella.
E tu, la creatura per
me più cara al mondo -
e anche da morto,
figlio, per me resterai sempre il più caro -,
tu non farai più
carezze a questo mio viso,
tu non mi stringerai, o figlio, e non mi chiamerai ‘padre di tua
madre’,
tu non mi chiederai: “Chi ti offende, vecchio? Chi ti manca di
rispetto?
Chi ti rattrista? Chi
ti fa patire?
Dimmelo, padre, e io
lo punirò, chi ti fa torto”.
Ora, invece, io sono
un infelice, tu uno sventurato,
e tua madre fa solo
pietà e i tuoi familiari compassione.
Ecco, se c’è qualcuno
che spregia gli dèi,
veda la morte di
questo ragazzo e creda negli dèi.
CORO
Soffro per te, o
Cadmo: il figlio di tua figlia
sconta un pena giusta
per sé, ma per te dolorosa.
AGAVE
O padre, vedi com’è
cambiata la mia vita
[…]
[a questo punto si apre una lacuna piuttosto ampia che comprendeva
il lamento funebre di Agàve mentre ricomponeva il corpo di Pènteo e la prima
parte del discorso di Dionìso comparso ex machina.
Si è tentato di colmare la lacuna con versi appartenenti al Christus
Patiens, una tragedia cristiana sulla passione di Cristo risalente al Medio
Evo Bizantino (sec. XI-XII), costituita come un centone di versi tratti parte
dalle Baccanti e parte dalla Medea. Nella nostra messa in scena
riprendiamo alcuni di questi versi che si riferiscono, secondo la critica
filologica al ‘lamento funebre’ di Agàve]
[Oh, se io non avessi
macchiato queste mani!
Come potrò, io, infelice, io che ho orrore a
toccarlo, stringerlo
Sul mio seno? Come
potrò cantare il mio lamento?
Come potrò
abbracciare, figlio, le tue carni sparse?
Oh, sì, tutte le
abbraccerò, le carni sparse di questo figlio mio!
Le bacerò, queste
carni, nutrite dal mio seno!
Su ora, vecchio, noi
ora la riuniremo insieme alle sue carni
la testa di questo
povero figlio. Noi lo ricomporremo,
come possiamo, tutto
il suo corpo, forte.
O viso caro, o tenera
guancia!
Ecco, questo velo
coprirà la tua testa
e le tue membra
insanguinate e straziate dalle queste mani mie]
DIONISO
[…]
muterai forma,
diventerai un drago; si muterà in bestia
e prenderà l’aspetto
di un serpente anche tua moglie Armònia,
figlia di Ares, che
tu, nato mortale, avesti in sposa.
E con la tua sposa
guiderai un carro trainato da buoi,
alla testa di barbari:
oracolo di Zeus.
E molte città
distruggerai con eserciti immensi.
E quando violeranno
col saccheggio l’oracolo del Lossia,
conosceranno un
ritorno amaro.
Ma Ares salverà te e
Armonia,
E ti porrà a vivere
nella terra dei beati.
Queste parole io dico,
io, Dionìso, figlio di padre non mortale,
ma di Zeus. Se voi
aveste imparato la saggezza
- ma non voleste -,
ora la vostra vita sarebbe felice,
perché del figlio di
Zeus avreste guadagnato l’alleanza.
CADMO
Dionìso, noi t’imploriamo,
con te non siamo stati giusti.
DIONISO
Tardi voi mi
riconoscete; ma quando si doveva, non avete saputo.
CADMO
È vero, è vero. Ma ora tu, con il tuo castigo, colpisci oltre ogni
limite.
DIONISO
Io sono nato dio, ma
da voi ho subito violenze.
CADMO
Ma nell’ira gli dèi
non devono essere simili ai mortali.
DIONISO
Da molto tempo Zeus,
mio padre, decretò tutto questo.
AGAVE
Ahimè, vecchio, ormai
l’esilio, triste, è decretato.
DIONISO
E perché voi ancora
esitate di fronte all’inevitabile?
CADMO
O figlia, ci siamo
incamminati in un baratro tremendo
di sventura, tutti,
tu, infelice, e le tue sorelle,
e io, infelice. Andrò
a vivere tra i barbari, io,
vecchio, come uno
straniero. E il mio destino sarà
guidare orde di
barbari contro la Grecia.
E Armònia, figlia di
Ares, sposa mia, la guiderò io,
fatto serpente, lei
trasformata in natura selvaggia di serpente,
contro gli altari e le
tombe dei Greci,
alla testa di lance. E
mai io, infelice,
smetterò di soffrire, né avrò mai pace, neppure
quando varcherò
l’Acheronte che scende sottoterra.
AGAVE
O padre, e io senza te
andrò in esilio.
CADMO
Perché ti stringi a
me, figlia mia infelice: si stringe
a suo padre, candido
cigno, vecchio e stanco.
AGAVE
E dove andrò io,
cacciata dalla patria?
CADMO
Non lo so, figlia:
questo tuo padre ti è di poco aiuto.
AGAVE
Addio, casa, addio,
città di mio padre:
io vi lascio così
nella disgrazia,
per un esilio lontano
dalle mie stanze nuziali.
CADMO
Vai, figlia, [alla
casa] di Aristeo […]
AGAVE
Piango per te, padre.
CADMO
E io per te, figlia,
verso le mie lacrime, e per le tue sorelle.
AGAVE
Un colpo tremendo
ha portato Dionìso
Signore
alla tua famiglia.
CADMO
E lui cose tremende da
voi aveva subìto,
quando qui a Tebe il
suo nome non aveva onore.
AGAVE
Stai bene, padre mio.
CADMO
E anche tu stai bene,
povera figlia mia:
ma al bene è difficile
arrivarci.
AGAVE
E ora, amiche,
portatemi dalle mie sorelle:
saranno compagne del
mio triste esilio.
Voglio andare dove
non mi vedrà l’orrendo
Citerone,
né io vedrò con questi
occhi il Citerone,
dove del tirso non
esiste memoria:
altre Baccanti se lo
prendano a cuore.
CORO
Molte sono le forme
del divino,
molte cose contro ogni
speranza realizzano gli dèi,
quelle che ci
aspettiamo non si compiono,
di quelle inattese il
dio trova una strada.
Così è andato questo
dramma.
Maria Adele Popolo
Note di Regia
Testo:
LE BACCANTI di Euripide.
Delle Baccanti ciò che mi ha colpito in particolare è la
dualità dell’opera. Anche se è catalogata come Tragedia essa è, a mio avviso,
contemporaneamente tragedia e commedia. Partendo da questa mia impressione ho
cercato di effettuare un riadattamento del testo per renderlo in alcune parti
più prosastico e in altre più lirico, lasciando alcune battute invariate. La
dualità della rappresentazione teatrale è un elogio a Dioniso, divinità protettrice
del Teatro. L’opera è complessa e cela svariati messaggi e molteplici spunti.
Io ho scelto questo appena detto approfittando del duello interiore tra eros e
ragione, tra follia e rettitudine, tra gioia e dolore che coinvolge tutti i protagonisti
ma che in Agave raggiunge il climax. Attraverso la sua follia il Commediante Dioniso
ha operato la sua meditata e tremenda vendetta costringendola ad una Tragica
conclusione. Ciò che inizia come commedia finisce in tragedia, come succede
spessissimo nella effimera realtà della vita umana.
Il luogo è uno spazio indefinito, la stanza interiore agli
animi e alle menti dei protagonisti. È il posto nascosto della istintività
umana, il regno di Dioniso. Un Dioniso crudele, ambiguo, affascinante e
irresistibile a cui neppure il forte raziocinio e la salda determinazione di
Penteo possono resistere.
In questa tragedia Dioniso è il dio assoluto, onnipotente, dalle
molteplici facce e nature, umana, animale, divina. Il dio della vita e della
morte che trama vendetta contro coloro che lo rinnegano, ma protegge e dona
gioie a chi lo venera.
Maria Adele Popolo
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