LE BACCANTI

di Euripide

QUINTO EPISODIO


SECONDO MESSAGGERO

        O casa, felice un tempo nella la Grecia intera,
        casa di Cadmo, il vecchio di Sidone, che seminò nella terra
        i denti del drago, del serpente razza della terra,
        come ti piango, e sono solo un servo, eppure…
        [per i servi onesti sono disgrazia i mali dei padroni]

CORO

        Che c’è? Dalle Baccanti che novità ci porti?

SECONDO MESSAGGERO

        Pènteo è morto, il figlio di Echìone.

CORO

        Signore Bromio, dio ti riveli, grande!

SECONDO MESSAGGERO

        Che dici? Che parole son queste? Tu, donna,
        sei felice per le disgrazie dei miei padroni?

CORO

Sono straniera io, e grido la mia gioia coi miei canti da barbara, euòi.
        Ora non tremo più per la paura, non sarò più in catene.
SECONDO MESSAGGERO
        E credi che a Tebe non esistano più uomini…? […]

CORO

        Dionìso, Dionìso, non Tebe
        ha su di me potere!

SECONDO MESSAGGERO

        Posso capirvi. Ma non è bello, donne,
        essere felici dei mali degli altri.

CORO

        Dimmi tu, parla: di che morte è morto
        quell’uomo ingiusto che tramava ingiustizie?

SECONDO MESSAGGERO

        Ci si lasciò alle spalle le ultime case di questa terra di Tebe,
        risalimmo le correnti dell’Asòpo
        e poi si prese su per ripidi sentieri che vanno al Citerone,
        Pènteo, io – che seguivo il mio padrone –
        e lo straniero, la nostra guida in quella spedizione.
        Prima una sosta in un prato erboso,
        attenti a soffocare il rumore dei passi ed il respiro,
        per vedere senza essere visti.
        C’era una conca tra pareti di roccia, scavate da sorgenti,
        ombreggiata dai pini: le Menadi erano là,
        tutte prese in piacevoli fatiche:
        alcune coronavano d’edera il loro tirso
        che aveva perduto la sua chioma;
        altre, come puledre liberate dai gioghi variopinti,
        facevano risonare a voci alterne un canto a Bacco.
Pènteo, quell’infelice, non riusciva a vedere la schiera delle donne.
E allora disse: “Straniero, io da qui,
        non arrivo a vederle, quelle Menadi false.
        Ma lassù dalle rocce, se salgo proprio in cima ad un abete,
        le vedrei bene, le loro sconcezze”.
        A questo punto, ecco, vedo il miracolo dello Straniero:
        afferra la cima, alta fino al cielo, di un abete
        e lo piega giù, lo piega, lo piega giù fino alla terra nera.
        E l’abete si curva, come un arco o un legno
        che il tornio modella a forma di ruota.
Proprio così lo Straniero, con le sue mani, teneva quell’albero di montagna e lo piegava giù fino a terra: e questa impresa niente aveva di umano.
        Poi fa sedere Pènteo sui rami dell’abete,
        si fa scorrere il tronco diritto tra le mani, piano piano,
        attento che lui non sia disarcionato:
        dritto ora l’albero svettava su, nell’alto del cielo,
        e si portava, seduto sulla cima, il mio padrone.
        E fu visto, piuttosto che vederle, lui, le Menadi.
        Non era ancora bene in vista, appostato lassù in alto,
        che lo Straniero non si vide più.
        Ma dal cielo una voce - Dionìso credo -
        levò il grido: “Ragazze,
        vi porto chi ha riso di voi,
        di me e dei miei riti: punite l’uomo!”.
        Mentre così parlava, tra cielo
        e terra si stagliava una luce di fuoco divino.
        Silenzio nell’aria, silenzio tra le fronde del bosco
        e nella valle, silenzio le voci delle fiere.
        Ma quelle non udirono chiara la voce del dio
        e si alzarono ritte e volsero attorno gli occhi.
        Lui di nuovo gridò: quando udirono
        chiaro il comando di Bacco, le figlie di Cadmo
        si lanciarono più veloci di colombe,
        mossero i piedi in corsa vorticosa
        la madre Agàve e con lei le sorelle, nate dal suo stesso seme,
        e tutte le Baccanti. E a balzi per la valle solcata dai torrenti
        e tra i burroni corsero, invasate dallo spirito del dio.
        Quando poi vedono il mio padrone nascosto sull’abete,
s’arrampicano su una roccia che stava di fronte a lui come una torre, scagliano pietre a tutta forza e rami d’abete come fossero lance.
        Altre facevano balenare nell’aria i loro tirsi
        contro Pènteo, ormai solo un misero bersaglio, ma senza colpirlo.
        Quell’infelice, in preda alla paura e senza scampo,
        era troppo in alto, fuori portata dalla loro furia.
        Alla fine, schiantano come fulmini i rami dalle querce e
        si mettono a scalzare le radici; ma quelle leve non erano di ferro
        e i loro sforzi furono tutti vani.
        Allora Agàve disse: “Avanti, Menadi, tutte qua in cerchio,
        afferrate il tronco, prendiamo la bestia salita lassù,
        perché non sveli le danze segrete del dio!”.
        Mille mani abbrancano l’abete,
        lo strappano dalla terra
        e da lassù, dall’alto a precipizio,
        s’abbatte a terra, Pènteo, tra grida di terrore:
        capisce di essere vicino alla rovina.
Fu sua madre, per prima, ad iniziare, sacerdotessa di un rito di sangue,e gli si avventa contro. Lui si strappa via la mitra dai capelli, perché Agàve, anche lei infelice, lo riconosca e non lo uccida, carezza il viso di sua madre e dice:
        “Io, madre, sono figlio tuo,
        Pènteo, partorito da te nella casa di Echìone.
        Pietà, madre, abbi pietà di me, per le mie colpe
        non ammazzarlo, questo figlio tuo!”.
        Ma quella, con la bava alla bocca, torceva
        le pupille stravolte, era fuori di sé, non intendeva:
        posseduta da Bacco, lei non l’ascoltò.
        Gli afferra il braccio sinistro con le mani,
        punta i piedi sui fianchi di quel disgraziato
        e gli sbrana la spalla, ma non con la sua forza:
        il dio dava vigore alle sue braccia.
        Dall’altra parte compie il suo scempio Ino
        e squarta le carni, poi s’accanisce Autònoe e poi le Baccanti
        in branco tutte insieme. Era tutto un gridare confuso:
        lui urlava di dolore finché ebbe ancora un po’ di fiato,
        loro urlavano grida di vittoria. Una portava un braccio,
        l’altra un piede ancora col calzare, le costole messe a nudo
        erano sbranate e con le mani grondanti di sangue le Baccanti
        si lanciavano, come una palla, i brandelli di carne di Pènteo.
        Ora il suo corpo giace, fatto a pezzi, qua e là: un pezzo
        sotto rocce scoscese, un pezzo tra le macchie del bosco,
        e non sarà facile trovarli. La misera testa,
        se l’è presa sua madre:
        l’ha piantata sulla cima del tirso e la porta in trofeo
        giù per il Citerone, come fosse la testa di un leone montano.
        Ora ha lasciato le sorelle tra i cori delle Menadi
        e lei, fiera di questa preda disgraziata,
        avanza verso le nostre mura e invoca Bacco,
        suo alleato, suo compagno di caccia, il grande vincitore:
        e a lui porta il trofeo di una vittoria fatta di lacrime.
        Ma io voglio stare lontano da questo orrore, e me ne andrò
        prima che Agàve arrivi qui a palazzo.
        Essere saggi e venerare gli dèi
        è la cosa più bella: e credo anche che sia la più sensata
        e, per noi mortali, un bene prezioso, se lo mettiamo in pratica.

QUINTO STASIMO

CORO

        Cori per Bacco,
        grida di rovina
        per Pènteo, stirpe del serpente:
        si travestì con vesti di donna,
        prese un bastone d’edera incoronato,
        fatale promessa di morte,
        un toro lo guidò alla rovina.
        Baccanti figlie di Cadmo,
        il vostro canto di vittoria bella
        ha fine nelle lacrime e nel pianto:
        oh, bella impresa, abbracciare la testa di un figlio
        con mano che gronda del suo sangue!

ESODO

 

CORO

        Ecco, la vedo! Arriva qui alla reggia
        Agàve, la madre di Pènteo. Ha gli occhi stravolti!
        Accoglietelo in festa, questo corteo del dio della gioia, euòi!

                                                                    strofe]

AGAVE

        Baccanti d’Asia!
CORO
        Perché questo grido?

AGAVE

        Portiamo su dai monti
        a questa casa un tralcio d’edera, tenero,
        appena reciso: caccia fortunata.
CORO
        Vedo e ti accolgo in mezzo al mio corteo.

AGAVE

        L’ho preso senza rete,
        questo giovane cucciolo di leone selvaggio.
        Eccolo, guarda!

CORO

        Da quale terra solitaria vieni?

AGAVE

        Il Citerone…
CORO
        Il Citerone?

AGAVE

        L’uccise il Citerone.
CORO
        Ma chi lo colpì?

AGAVE

        Il merito è tutto mio!
CORO
        Agàve beata!

AGAVE

        E beata mi chiamano nei tiasi.
CORO
        Chi altra lo colpì?

AGAVE

        Di Cadmo le…

CORO

        Di Cadmo?

AGAVE

        Sì, le figlie di Cadmo,
        ma dopo di me, dopo di me
        loro hanno messo le mani su questa fiera:
        fortunata davvero questa caccia!

CORO

           […]

                                                            antistrofe]

AGAVE

        Su, ora, al mio banchetto!
CORO
        Che dici? A banchetto? Oh, infelice!

AGAVE

        È un vitellino di latte.
        Solo un’ombra di morbido pelo
        gli fiorisce appena sulla guancia.

CORO

        Dalla criniera sembra una fiera selvaggia.

AGAVE

        È stato Bacco, l’astuto cacciatore,
        a spingere con l’astuzia
        le Menadi contro questa fiera.

CORO

        Il nostro signore è cacciatore.

AGAVE

        E tu mi lodi?

CORO

        Ti lodo.

AGAVE

        Presto i Tebani…
CORO
        … di sicuro Pènteo, figlio tuo…

AGAVE

        … oh, sì, lui dirà brava a sua madre
        che ha preso questa preda, creatura di leone.
                                            
CORO
        Preda gloriosa!

AGAVE

        E presa con gloria!
CORO
        E sei felice?

AGAVE

        Sono felice: con questa caccia
        grandi cose ho compiuto,
        grandi e gloriose.

CORO

        E allora mostra, infelice, la tua preda gloriosa
        ai tuoi concittadini, questa preda che tu porti in trionfo.

AGAVE

        Voi che abitate la rocca di Tebe dalle belle torri,
        correte a vedere questa preda,
        che abbiamo preso noi, figlie di Cadmo,
        e non con giavellotti di Tessaglia dalle cinghie di cuoio,
        non con le reti, ma solo con la forza di queste mani candide:
        e allora, perché vantarsi e procurarsi invano
        strumenti di guerra da chi fabbrica armi?
Noi solo con queste mani abbiamo catturato l’animale e le sue membra le abbiamo fatte a pezzi con queste stesse mani.
        Dov’è il mio vecchio padre? Che venga qui, vicino.
        E Pènteo, il figlio mio, dov’è?
        Prenda una scala robusta, e l’appoggi alle mura:
        inchioderemo ai fregi del palazzo
        questa testa di leone che io porto come trofeo di caccia.

CADMO

        Seguitemi, con il misero peso dei resti
        di Pènteo, seguitemi, servi, qui davanti al palazzo.
        Ecco, dopo molte ricerche riporto qui a fatica
        il suo corpo: io l’ho trovato fatto a brani, disperso
        fra le balze del Citerone, e nessun pezzo io l’ho raccolto
nello stesso posto. Era introvabile, disperso com’era nella macchia.
        Ho sentito qualcuno raccontare le belle imprese delle figlie mie,
        quando ormai avevo lasciato le Baccanti
        ed ero tornato qui in città con il vecchio Tiresia:
        allora me ne vado di nuovo su al monte
        e ora riporto qui il ragazzo massacrato dalle Menadi.
        E così ho visto quella che un giorno partorì Atteone  ad Aristeo,
        Autònoe e insieme a lei Ino, povere donne,
        che ancora brancolavano in delirio nel querceto.
        E lei, Agàve, un uomo mi disse che lei veniva qui
        a passo frenetico di danza, e mi ha detto il vero:
        l’ho qui davanti agli occhi, ed è una vista orrenda.

AGAVE

        Padre, puoi davvero vantarti di avere seminato
        le figlie migliori tra i mortali:
        e parlo di tutte le tue figlie, ma di me in particolare.
        Io ho abbandonato la spola e il telaio
e sono andata a imprese più grandi, a cacciare le fiere a mani nude.
        Ecco tra le mie braccia il mio trofeo, conquistato da me,
        perché sia appeso davanti alla tua casa:
        prendilo, padre mio, tra le tue mani,
        e, fiero della mia caccia,
        invita a banchetto i tuoi amici: beato tu sei,
        tu sei beato, per l’impresa che noi abbiamo compiuto!

CADMO

        O pena infinita! Io non posso guardare
        lo scempio compiuto da queste vostre mani disgraziate.
        Bella la vittima, che hai sacrificato per gli dèi,
        e ora inviti a banchetto questa città di Tebe e me!
        Ah, che disgrazia, prima di tutto tua, poi anche mia!
        Il dio e Bromio Signore ci ha distrutto, con giustizia, sì,
        ma oltre ogni limite. E lui è nato in questa nostra famiglia.

AGAVE

        Ah, che uggia questi vecchi, sempre così scorbutici
        e noiosi!  Oh, se mio figlio
        fosse bravo a caccia e somigliasse a sua madre,
        quando coi giovani Tebani
        va a caccia delle fiere! Ma quello è bravo solo
        a fare la guerra al dio! Tu, padre, devi farlo ragionare.
        Chi me lo va a chiamare, chi me lo porta qui
        a vedere quanto sono felice? 

CADMO

        Ah, quando ritornerete in senno e capirete quello che avete fatto,
        patirete un dolore tremendo. Ma, se per sempre
        sarete in questo stato, certo non sarete felici,
        ma almeno non saprete di soffrire.

AGAVE

        E cosa non va bene o ti addolora?

CADMO

        Ascoltami, fissa il tuo sguardo verso questo cielo.

AGAVE

        Ecco, ma perché mi dici di guardarlo?

CADMO

        E ti pare lo stesso, questo cielo, o avverti mutamenti?

AGAVE

        È più chiaro e più limpido di prima.

CADMO

        E questo senso di smarrimento nella tua anima c’è sempre?

AGAVE

        Non le capisco, queste tue parole. Però sento
che torno in me e i miei pensieri sono diversi dai pensieri di prima.

CADMO

        Sei in grado di ascoltare e rispondere con lucidità?

AGAVE

        Sì, padre. Ho come dimenticato quello che ho detto prima.

CADMO

        In quale casa sei entrata con il tuo matrimonio?

AGAVE

        Tu mi hai dato a Echìone, che, dicono, fu seminato nella terra.

CADMO

        E quale figlio è nato al tuo sposo in questa casa?

AGAVE

        Pènteo è nato dalla mia unione con suo padre.

CADMO

        E di chi è la testa che tieni tra le mani?

AGAVE

        Di un leone: almeno così dicevano le donne, mie compagne di caccia.

CADMO

        Guardala ora, con attenzione: è fatica da poco guardarla.

AGAVE

        Ah! Ma che vedo? Che mi porto in mano?

CADMO

        Su, osserva bene, e conoscilo meglio.

AGAVE

        Vedo un dolore immenso, io, disgraziata!

CADMO

        E ti pare davvero che assomigli a un leone?

AGAVE

        No! È la testa di Pènteo! E io la tengo in mano, disgraziata!

CADMO

        E io l’ho già compianto, prima che tu lo riconoscessi.

AGAVE

        E chi l’ha ucciso? Com’è arrivato qui tra le mie mani?

CADMO

        Triste verità, perché non giungi in tempo?!

AGAVE

        Parla! Mi scoppia il cuore per quello che dirai!

CADMO

        Tu l’ha ammazzato, e le tue sorelle.

AGAVE

        E dove è morto? Qui, in casa ? O dove?

CADMO

        Proprio là, dove un tempo le cagne sbranarono Atteone.

AGAVE

        E perché questo povero infelice andò sul Citerone?

CADMO

        Per ridere del dio e delle tue danze per Bacco.

AGAVE

        E noi in quel luogo come s’arrivò?

CADMO

        In delirio eravate, e tutta la città era piena di quella pazzia.
AGAVE
        Dionìso ci ha perduto: solo ora capisco.

CADMO

        Sì, offeso dalle vostre offese: per voi lui non era un dio.

AGAVE

        E il corpo caro di quel figlio mio, padre, dov’è?

CADMO

        È qui: l’ho ritrovato io, con grande fatica.

AGAVE

        E tutte le sue membra sono ben ricomposte?
        […]
        E Pènteo che parte ebbe nella mia pazzia?

CADMO

        Lui era come voi: non venerava il dio.
        Per questo Dionìso vi ha uniti tutti nella stessa disgrazia,
        voi e questo ragazzo: il dio ha distrutto la mia famiglia
        e me. E io, ora, senza figli maschi,
        sono qui a guardare questo frutto del ventre tuo,
        o infelice, trucidato nel modo più vergognoso e orrendo.
        A testa alta guardava a te la nostra famiglia, a te, o figlio,
        che reggevi la mia casa, il figlio di mia figlia,
        a te che eri il terrore di questa città. E questo vecchio,
        nessuno osava offenderlo alla tua presenza,
        perché l’avrebbe pagata a caro prezzo.
        Ma ora, senza più dignità, sarò esiliato da questa casa, io,
        il grande Cadmo, che seminò la razza dei Tebani
        per poi mietere la messe più bella.
        E tu, la creatura per me più cara al mondo -
        e anche da morto, figlio, per me resterai sempre il più caro -,
        tu non farai più carezze a questo mio viso,
tu non mi stringerai, o figlio, e non mi chiamerai ‘padre di tua madre’,
tu non mi chiederai: “Chi ti offende, vecchio? Chi ti manca di rispetto?
        Chi ti rattrista? Chi ti fa patire?
        Dimmelo, padre, e io lo punirò, chi ti fa torto”.
        Ora, invece, io sono un infelice, tu uno sventurato,
        e tua madre fa solo pietà e i tuoi familiari compassione.
        Ecco, se c’è qualcuno che spregia gli dèi,
        veda la morte di questo ragazzo e creda negli dèi.

CORO

        Soffro per te, o Cadmo: il figlio di tua figlia
        sconta un pena giusta per sé, ma per te dolorosa.

AGAVE

        O padre, vedi com’è cambiata la mia vita
        […]

[a questo punto si apre una lacuna piuttosto ampia che comprendeva il lamento funebre di Agàve mentre ricomponeva il corpo di Pènteo e la prima parte del discorso di Dionìso comparso ex machina. Si è tentato di colmare la lacuna con versi appartenenti al Christus Patiens, una tragedia cristiana sulla passione di Cristo risalente al Medio Evo Bizantino (sec. XI-XII), costituita come un centone di versi tratti parte dalle Baccanti e parte dalla Medea. Nella nostra messa in scena riprendiamo alcuni di questi versi che si riferiscono, secondo la critica filologica al ‘lamento funebre’ di Agàve]
       
        [Oh, se io non avessi macchiato queste mani!
         Come potrò, io, infelice, io che ho orrore a toccarlo, stringerlo
        Sul mio seno? Come potrò cantare il mio lamento?
        Come potrò abbracciare, figlio, le tue carni sparse?
        Oh, sì, tutte le abbraccerò, le carni sparse di questo figlio mio!
        Le bacerò, queste carni, nutrite dal mio seno!
        Su ora, vecchio, noi ora la riuniremo insieme alle sue carni
        la testa di questo povero figlio. Noi lo ricomporremo,
        come possiamo, tutto il suo corpo, forte.
        O viso caro, o tenera guancia!
        Ecco, questo velo coprirà la tua testa
        e le tue membra insanguinate e straziate dalle queste mani mie]

DIONISO

        […]
        muterai forma, diventerai un drago; si muterà in bestia
        e prenderà l’aspetto di un serpente anche tua moglie Armònia,
        figlia di Ares, che tu, nato mortale, avesti in sposa.
        E con la tua sposa guiderai un carro trainato da buoi,
        alla testa di barbari: oracolo di Zeus.
        E molte città distruggerai con eserciti immensi.
        E quando violeranno col saccheggio l’oracolo del Lossia,
        conosceranno un ritorno amaro.
        Ma Ares salverà te e Armonia,
        E ti porrà a vivere nella terra dei beati.
        Queste parole io dico, io, Dionìso, figlio di padre non mortale,
        ma di Zeus. Se voi aveste imparato la saggezza
        - ma non voleste -, ora la vostra vita sarebbe felice,
        perché del figlio di Zeus avreste guadagnato l’alleanza.

CADMO

        Dionìso, noi t’imploriamo, con te non siamo stati giusti.

DIONISO

        Tardi voi mi riconoscete; ma quando si doveva, non avete saputo.

CADMO

È vero, è vero. Ma ora tu, con il tuo castigo, colpisci oltre ogni limite.

DIONISO

        Io sono nato dio, ma da voi ho subito violenze.

CADMO

        Ma nell’ira gli dèi non devono essere simili ai mortali.

DIONISO

        Da molto tempo Zeus, mio padre, decretò tutto questo.

AGAVE

        Ahimè, vecchio, ormai l’esilio, triste, è decretato.

DIONISO

        E perché voi ancora esitate di fronte all’inevitabile?

CADMO

        O figlia, ci siamo incamminati in un baratro tremendo
        di sventura, tutti, tu, infelice, e le tue sorelle,
        e io, infelice. Andrò a vivere tra i barbari, io,
        vecchio, come uno straniero. E il mio destino sarà 
        guidare orde di barbari contro la Grecia.
        E Armònia, figlia di Ares, sposa mia, la guiderò io,
        fatto serpente, lei trasformata in natura selvaggia di serpente,
        contro gli altari e le tombe dei Greci,
        alla testa di lance. E mai io, infelice,
        smetterò di soffrire, né avrò mai pace, neppure
        quando varcherò l’Acheronte che scende sottoterra.

AGAVE

        O padre, e io senza te andrò in esilio.

CADMO

        Perché ti stringi a me, figlia mia infelice: si stringe
        a suo padre, candido cigno, vecchio e stanco.

AGAVE

        E dove andrò io, cacciata dalla patria?

CADMO

        Non lo so, figlia: questo tuo padre ti è di poco aiuto.

AGAVE

        Addio, casa, addio, città di mio padre:
        io vi lascio così nella disgrazia,
        per un esilio lontano dalle mie stanze nuziali.

CADMO

        Vai, figlia, [alla casa] di Aristeo […]

AGAVE

        Piango per te, padre.

CADMO

        E io per te, figlia, verso le mie lacrime, e per le tue sorelle.

AGAVE

        Un colpo tremendo
        ha portato Dionìso Signore
        alla tua famiglia.
CADMO
        E lui cose tremende da voi aveva subìto,
        quando qui a Tebe il suo nome non aveva onore.

AGAVE

        Stai bene, padre mio.

CADMO

        E anche tu stai bene, povera figlia mia:
        ma al bene è difficile arrivarci.

AGAVE

        E ora, amiche, portatemi dalle mie sorelle:
        saranno compagne del mio triste esilio.
        Voglio andare dove
        non mi vedrà l’orrendo Citerone,
        né io vedrò con questi occhi il Citerone,
        dove del tirso non esiste memoria:
        altre Baccanti se lo prendano a cuore.

CORO

        Molte sono le forme del divino,
        molte cose contro ogni speranza realizzano gli dèi,
        quelle che ci aspettiamo non si compiono,
        di quelle inattese il dio trova una strada.
        Così è andato questo dramma.


Maria Adele Popolo

Note di Regia
 Testo:

LE BACCANTI di Euripide.

Delle Baccanti ciò che mi ha colpito in particolare è la dualità dell’opera. Anche se è catalogata come Tragedia essa è, a mio avviso, contemporaneamente tragedia e commedia. Partendo da questa mia impressione ho cercato di effettuare un riadattamento del testo per renderlo in alcune parti più prosastico e in altre più lirico, lasciando alcune battute invariate. La dualità della rappresentazione teatrale è un elogio a Dioniso, divinità protettrice del Teatro. L’opera è complessa e cela svariati messaggi e molteplici spunti. Io ho scelto questo appena detto approfittando del duello interiore tra eros e ragione, tra follia e rettitudine, tra gioia e dolore che coinvolge tutti i protagonisti ma che in Agave raggiunge il climax. Attraverso la sua follia il Commediante Dioniso ha operato la sua meditata e tremenda vendetta costringendola ad una Tragica conclusione. Ciò che inizia come commedia finisce in tragedia, come succede spessissimo nella effimera realtà della vita umana.

Il luogo è uno spazio indefinito, la stanza interiore agli animi e alle menti dei protagonisti. È il posto nascosto della istintività umana, il regno di Dioniso. Un Dioniso crudele, ambiguo, affascinante e irresistibile a cui neppure il forte raziocinio e la salda determinazione di Penteo possono resistere.
In questa tragedia Dioniso è il dio assoluto, onnipotente, dalle molteplici facce e nature, umana, animale, divina. Il dio della vita e della morte che trama vendetta contro coloro che lo rinnegano, ma protegge e dona gioie a chi lo venera.





Maria Adele Popolo





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